Come probabilmente intuibile dal titolo, questo articolo si occupa di relazione fraterna e disabilità… ma a chi spetta l’aggettivo “speciale” starà al lettore deciderlo.
La nascita di un figlio con disabilità è sicuramente un evento destabilizzante per i genitori e per la famiglia intera (vedi gli studi di Zanobini, Manetti e Usai, 2002), ma la portata ed il tipo dell’effetto che questo evento può avere dipende da molti fattori. Per molti anni, come sottolineano Kearney e Griffin (2001), la ricerca in quest’ambito è stata dominata dall’idea che la nascita di un figlio disabile abbia necessariamente un impatto emotivo negativo. Molti autori hanno, in seguito, fortemente criticato tale visione: le linee di ricerca successive, a partire dagli anni ’90, hanno definito nuove prospettive muovendo dall’assunto che un evento non può essere considerato e definito stressante a priori, ma solo in base alla valutazione che ne danno le persone che vivono quell’evento, con le loro caratteristiche personali, familiari e ambientali e la loro storia. Queste prospettive di ricerca hanno contribuito a delineare un quadro delle famiglie in cui è presente un figlio con disabilità molto meno drammatico e unilaterale rispetto alle ricerche degli anni precedenti. Ogni famiglia, con i suoi limiti e le sue potenzialità, affronta l’evento disabilità in modi del tutto particolari, in cui gli aspetti negativi si intrecciano con quelli positivi: criticità e risorse, come in qualsiasi famiglia. In quest’ambito sono interessanti gli studi sulla relazione fraterna, che finora hanno riguardato principalmente la relazione in cui un fratello ha una diagnosi di disabilità intellettiva, di sindrome di Down o di disturbo dello spettro autistico. Mi concentrerò in particolare su quest’ultimo caso, sintetizzando in parte alcuni studi condotti in ambito internazionale ed in parte riflettendo su uno studio condotto in Italia qualche anno fa.
Diversi studiosi hanno ipotizzato che sulla qualità della relazione fraterna abbiano un ruolo centrale diverse variabili. Innanzitutto a diversi gradi di gravità del disturbo (Myers, 1990) corrispondono diversi modi di approcciarsi al proprio fratello e di rispondere alle sue esigenze. In secondo luogo, l’appartenenza della famiglia ad una certa cultura influenza l’interpretazione che si dà dell’autismo del fratello (Sage & Jegatheesan, 2010).
Altra variabile che influenza la relazione fraterna appare essere il ruolo di facilitazione dei genitori: quando i genitori incoraggiano interazioni positive e atteggiamenti cooperativi e intervengono per aiutare il figlio disabile ad essere più attivo nelle interazioni, viene favorita una relazione fraterna positiva (Dallas, Stevenson & McGurk, 1993; Strain & Danko, 1995).
Infine, ma non ultimo, la qualità di informazione che i fratelli ricevono e ricercano riguardo il disturbo e le implicazioni di questo nella vita del fratello disabile assume un ruolo centrale. Già Folkmann e Lazarus (1988) avevano osservato come l’informazione fosse una buona strategia di coping in situazioni stressanti. Glasberg (2000), in uno studio con 63 fratelli e sorelle di ragazzi con autismo, osserva come la maggior parte dei fratelli con sviluppo tipico abbia una conoscenza limitata del disturbo e delle sue implicazioni e conferma l’importanza di una adeguata comunicazione e informazione, ritenendola un fattore strategico per la qualità del legame fraterno. Unal e Baran (2011) hanno riconfermato questa ipotesi trovando una stretta relazione tra la qualità dell’informazione e i comportamenti: i fratelli con sviluppo tipico che sono meglio informati si prendono maggiormente cura dei loro fratelli e appaiono più legati e più empatici nei loro confronti.
In questa direzione, uno studio in cui sono stati intervistati alcuni ragazzini italiani (Farina, Bernardi e Albanese, 2012), di età compresa tra i 10 ed i 18 anni, fratelli o sorelle di ragazzi con diagnosi di disturbo dello spettro autistico, ha evidenziato interessanti legami tra la conoscenza della patologia (in termini di definizione ed implicazioni nella quotidianità) e la qualità della relazione fraterna (in termini di intimità, potere, conflitto e rivalità). In particolare, dallo studio è emerso come i fratelli in generale non abbiano una sufficiente conoscenza del disturbo e delle sue implicazioni e riguardo le dimensioni relative alla relazione fraterna, queste sembrano caratterizzate da livelli bassi di intimità ma anche di conflitto e rivalità. Sembrerebbero dunque relazioni caratterizzate da basso coinvolgimento. Tuttavia, il risultato interessante riguarda il legame riscontrato tra conoscenza delle implicazioni dell’autismo e intimità: in altre parole, chi meglio conosce qual è l’impatto del disturbo sulla quotidianità del fratello, ha anche una relazione fraterna più intima. È ipotizzabile che una relazione già di per sé più “intima” porti il fratello ad informarsi di più riguardo l’autismo e quindi ad essere più consapevole delle implicazioni che il disturbo ha sulla vita del fratello disabile e dei familiari. È comunque altrettanto plausibile che il fatto di conoscere maggiormente il disturbo del fratello possa avere un’influenza positiva sulla relazione. Favorire una maggiore consapevolezza nei figli rispetto alla disabilità del loro fratello, dare loro degli strumenti per poter capire quello che vivono ogni giorno, coinvolgerli attivamente fin da subito, con tempi e modi adeguati, nel percorso di informazione alla famiglia e poi in quello terapeutico potrebbe fare di loro degli “alleati strategici” di tutte le figure professionali che ruotano attorno al ragazzo con disabilità. Inoltre tale coinvolgimento aiuterebbe i figli a non sentirsi soli, ma parte integrante del nucleo famigliare e a vivere meglio sia la relazione fraterna che quella coi genitori. Inoltre, la pratica clinica potrebbe coinvolgere maggiormente i fratelli durante tutto il percorso terapeutico, considerandoli sia come una risorsa, sia come persone bisognose di attenzione e desiderose di non essere considerate solamente “fratello o sorella di”. A voi dunque la scelta: chi è il fratello speciale?
Laureata in Psicologia dello Sviluppo presso l’Università di Pavia, è Ricercatrice in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata presso la Scuola di Psicoterapia ad Orientamento Sistemico e Socio-Costruzionista di Milano – Centro Panta Rei, è iscritta all’Albo degli Psicoterapeuti della Lombardia (n. 16147). È terapeuta EMDR.
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