27 agosto 2018, Nevada, deserto.
Dagli anni ’80 questa porzione di terra desertica e inospitale, poco distante dall’azzurrissimo Pyramid Lake, viene impŕovvisamente risvegliata da una temporanea popolazione che vi si riversa e che oggi consta di circa 70.000 abitanti. La città che si viene a creare appare il 26 agosto per poi scomparire, senza lasciare traccia alcuna, il 2 settembre di ogni anno. Ma cosa accade li dentro? Che persone partecipano a tutto questo? E perché? Non ho resistito alla curiosità e sono andata a vedere.
Partirei dal presupposto che tutta questa macchina è molto ben strutturata, ha dei principi fondamentali che vanno rispettati, come la capacità di auto-sostenersi in tutto, la garanzia di lasciare tutto l’ambiente immutato (per capirci non si può nemmeno versare a terra l’acqua), e diversi altri precetti che in sostanza hanno a che fare con il rispetto dell’altro, di sé e dall’ambiente in cui si è immersi.
Ma non voglio dilungarmi sui dettagli tecnici dell’evento, quanto più riportare quello che è lo spaccato psicologico e comportamentale che emerge da una situazione come questa.
Nella città è presente infatti anche una struttura denominata “Zendo” in cui lavorano come volontari diversi psicologi e psicoterapeuti per aiutare i temporanei abitanti ad affrontare alcuni momenti difficili che possono derivare da una situazione in parte estrema, in parte emotivamente forte.
L’idea del fondatore era quella di dare una momentanea libertà di espressione sia artistica che comportamentale alle persone che partecipassero, garantendo però il rispetto dell’altro, il non giudizio e mettendo in primissimo piano il “dono” Il donare quindi come sostegno reciproco e garanzia che tutti possono dare agli altri qualcosa che possa essere utile o semplicemente possa fornire un momento di gioia e sollievo.
Ciò che ho visto mi è parso un esperimento ottimamente riuscito di una società dalla libera espressione. Il comportamento che le persone hanno assunto è stato per me affascinante da poter vedere e sperimentare regressioni a comportamenti giocosi come se si entrasse in un gigantesco parco giochi, ma fatto da adulti con competenze tecniche ormai sviluppate e anche piuttosto complesse. Quindi ci si trova a parlare con un docente della Stanford University ormai in pensione da diversi anni vestito in modo improbabile, così come a seguire corsi nei diversi camp che offrono la loro esperienza come dono per la comunità. Corsi che vanno dalla neuroscienza allo squirting, dal tantra yoga a come creare dei copri capezzoli. Il tutto immersi in una condizione di generale gentilezza e positività.
Molte persone arrivano al burning man con l’idea di fare un’esperienza unica nella vita e a quanto pare gran parte di questi 70.000 poi la ripete più e più volte nel corso della sua vita. Ciò che spesso conduce in questo posto così arido, scomodo e passibile di tempeste di sabbia (che, garantisco, non sono piacevolissime!), è la volontà di creare una linea tra un prima e un dopo. Una sorta di rituale liberatorio che permetta di capire meglio cosa si vuole se si tolgono molti vincoli e permetta quindi di ricominciare poi in modo diverso.
Il rituale è sancito dal grande incendio finale. Ciò che viene bruciato di fronte a tutti gli astanti l’ultimo giorno è un tempio, che ogni anno viene costruito da artisti di professione, così come le varie installazioni che si trovano nella piazza centrale della città, la playa, e che fanno da ulteriore stimolo alla riflessione partendo da un piano artistico, ma chiaramente simbolico e colmo di messaggi esistenziali.
Il tempio diventa luogo di una sacralità che prescinde dalle religioni, durante la settimana le persone che siano cristiane, atee, induiste o di qualsiasi altra filosofia religiosa, riflettono anche in base agli stimoli emotivi che ricevono da tutti gli altri nella quotidianità e da ciò che gli altri danno in dono. Durante la settimana le persone portano quindi al tempio fogli, oggetti e simboli che rappresentano ciò che vogliono abbandonare di questa vita. Oltre a questo portano ricordi di persone che non ci sono più che vogliono salutare.
Colpisce molto l’atmosfera che si trova in quel luogo la notte. Nel buio del deserto convergono al tempio moltissime persone che piangono o riflettono sedute al centro. Lasciano andare le loro emozioni come sentono. Diventa il luogo dove si sta insieme nel “passaggio”, nel cambiamento.
L’ultima notte il tempio viene bruciato e con esso tutti i simboli portati, le persone vivono così una sorta di emozionante rituale di passaggio, che ho trovato estremamente terapeutico.
Non mi resta che consigliarvi di farci un salto uno di questi prossimi anni, perché, a quanto pare, liberarsi non è poi così male.
Laureata in Psicologia Clinica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Specializzata presso la Scuola di Psicoterapia ad Orientamento Sistemico e Socio-Costruzionista di Milano – Centro Panta Rei, è iscritta all’Albo degli Psicoterapeuti della Lombardia (n. 13131). Abilitata alla valutazione peritale come Consulente Tecnico di Parte (CTP) e Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU) presso lo Studio RiPsi, è terapeuta EMDR.
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